Secondo l’avviso della giurisprudenza dominante, la pubblicazione di insulti sui social rientra nel novero delle attività giuridicamente perseguibili, con conseguenze che trasbordano l’area penalistica. Ecco cosa rischia.
La deregulation attorno ai post pubblicati sui social network è supplita da una giurisprudenza ormai consolidata in materia, la quale ha confermato più volte i risvolti giuridicamente rilevanti che una tale attività potrebbe ingenerare, laddove abusata dagli utenti. Pertanto, pubblicare post offensivi, con l’apparente rassicurazione di essere protetti da uno schermo, potrebbe far scattare delle conseguenze che toccano da vicino l’area penalistica.
Come evidenziato infatti dai giudici, insultare via social può integrare il reato di diffamazione, peraltro aggravato dall’utilizzo di un mezzo di pubblicità: Facebook, Instagram e Twitter sono d’altronde piattaforme conosciutissime e utilizzate dalla maggior parte delle persone, dunque rappresentano – secondo il condivisibile ragionamento dei giudici – una evidente cassa di risonanza mediatica per il compimento della condotta lesiva. L’aggravamento, inoltre, sussiste (Cassazione, sentenza n. 9105/2020) anche in tutti quei post pubblicati nei confronti di un numero limitato di amici (dunque non soltanto nei gruppi, sovente frequentati da molteplici persone, ma anche semplici profili utente).
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In linea generale, l’istituto della diffamazione è regolamentato dall’art. 595 del codice penale, il quale applica una pena della reclusione fino ad un anno e una pena pecuniaria fino a 1.032 euro laddove si offenda l’altrui reputazione. Nel caso delle condotte social, stante l’utilizzo del mezzo di pubblicità, si determina un aggravamento della misura: in buona sostanza, l’utente che insulta o diffama utilizzando i propri profili social può essere condannato alla reclusione fino a tre anni oppure multato per una somma che non può essere inferiore a 516 euro.
Il filone giurisprudenziale in ordine alle conseguenze degli insulti pubblicati sui social è già formato da tempo. Ad esempio, il pronunciamento del Tribunale di Taranto (sentenza n. 123/2020) ha ravvisato un comportamento diffamatorio in quei post che offendono il giornalista etichettandolo come “giornalaio”. Infatti, all’avviso dei giudici, la condotta penalmente rilevante può essere riscontrata tutte le volte in cui l’utente influisce negativamente – utilizzando, in questo senso, un potente mezzo di pubblicità, come Facebook, Twitter e Instagram, per citarne soltanto alcuni – sull’altrui reputazione.
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Peraltro, non basta eliminare il post contenente un insulto per poter essere immune da qualsivoglia conseguenza penale. Come ravvisato infatti dalla giurisprudenza, la vittima ha pieno diritto di chiedere il risarcimento dei danni, rivolgendosi dinanzi ad un giudice o costituendosi parte civile in un processo penale.
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